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Perché la scienza è impopolare

 

 

Elio Fabri

Fisico Università di Pisa

 

 

Come sapete io sono qui in rappresentanza dell’AIF, e probabilmente sono il solo fisico presente. Ciò significa che porto un punto di vista che può esservi meno familiare; esprimo interessi, parto da conoscenze un po’ differenti. Anche sulle cose che ho già sentito potrei avere qualche commento basato su esperienze un po’ diverse; però non mi tratterrò su questo.

 

Ho scelto un titolo a prima vista sconcertante: “Perché la scienza è impopolare”. Che cosa voglio dire? perché ho messo questo titolo? Se il titolo sia esatto, lo chiarirò più avanti. Potreste anche obiettarmi che il tema non sembra nemmeno tanto attinente a questa giornata: ma il fatto è che vorrei approfittare dell’occasione per una riflessione su quello che c’è a monte della situazione attuale.

 

La situazione è stata sintetizzata da Terreni e non la sto a ripetere; ma quando ci si domanda che dobbiamo fare, a me - sarà anche una mia particolare forma mentis - viene subito l’esigenza di capire di più, capire le premesse, il retroterra, l’origine della situazione in cui ci troviamo. Quindi mi son detto: proviamo a impostare una riflessione su queste cose. Naturalmente senza nessuna pretesa,  per più ragioni: perché non voglio annoiarvi per troppo tempo, perché non ritengo di avere una competenza particolare per analisi storico-critiche-sociali. Però negli anni qualche idea me la sono andata coltivando e voglio provare a proporvela.

 

La prima domanda è questa: noi lanciamo un appello, rivolto ai personaggi che conoscete, personaggi del mondo politico; sia ai responsabili dell’attuale governo sia anche all’opposizione. Ora: sono loro i destinatari giusti?

 

Mi spiego: o queste persone - pensiamo soprattutto a quelli che hanno responsabilità di governo, quindi prendono decisioni - sono già d’accordo sulle cose che noi diciamo, ma allora lo avrebbero dimostrato agendo in maniera diversa da quello che stanno facendo, oppure non sono d’accordo. Ma in questo secondo caso li convinceremo noi con un appello? Ecco il problema: se queste persone sono lì e pensano nel modo che appare dai loro atti, non sarà perché rappresentano in realtà un modo di pensare che va ben al di là delle singole persone? I singoli potremmo criticarli, dicendo: non mi piace la Moratti perché ragiona così; ma se poi al posto della Moratti avessimo un ministro diverso, cambierebbe qualcosa?

 

Questo è il problema che mi pongo: se dietro a questi indirizzi di governo ci sono cause più profonde, quelle resteranno invarianti - oso dire - perfino di fronte ad un cambiamento di maggioranza politica. Con questo vi sto dicendo che a mio giudizio i guai non sono cominciati adesso, con la nuova maggioranza: sono molto più antichi, non sono neppure riconducibili solo al governo precedente. Quindi dobbiamo andare a vedere perché è successo tutto questo.

 

Mi rendo conto che se do un’impostazione di questo tipo, finisce che ci cascano le braccia, perché allora non si vede che cosa possiamo fare... Per questo l’ultima parte del mio discorso sarà dedicata a vedere in che direzione può avere senso muoversi per cambiare, là dove e quanto è possibile cambiare. Ma non possiamo arrivare a ciò senza esaminare molto  più alle radici la situazione in cui ci troviamo.

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Da quanto si legge, questa difficoltà dell’insegnamento scientifico, come pure la difficoltà dell’ambiente scientifico di avere ascolto, di avere peso presso i politici, non sembra sia un problema proprio solo italiano; non solo, ma non sembra neppure un problema tanto recente. Ricordo un episodio di cui fui testimone quasi 40 anni fa, nel 1964: ricorreva il centenario della nascita di Galileo e a Pisa, Firenze e Padova furono organizzate delle “giornate galileiane”. A Pisa si fece un convegno, cui parteciparono i maggiori fisici del mondo; uno di coloro che intervennero al convegno fu Richard Feynman (un nome che credo sia noto a tutti). Nella sua relazione a un certo punto se ne uscì con la battuta: “science is irrelevant”. Notate: stiamo parlando di un americano, che nel lontano ’64 diceva: “la scienza non conta” (e intendeva: nella società). Questo ci fa capire che il problema è più lontano, e più grande... Ciononostante esiste una specificità nazionale: sebbene il problema si possa ritrovare anche in altri paesi, mi sembra che la forma e le modalità che esso prende qui, nel nostro tempo, siano abbastanza caratteristiche.

 

Prima di tutto, riprendendo quanto già accennato da Terreni, una cosa caratterizza l’Italia rispetto ad altri paesi, ed è che la scienza e la ricerca scientifica non sono solo genericamente “irrelevant”, ma non hanno rilevanza economica. Non sono considerate, da parte della nostra industria, qualcosa che serve per andare avanti, per innovare prodotti, per trovare cose nuove. In Italia, per quanto ne so, sono ben poche le industrie che fanno ricerca scientifica. E qui bisogna stare attenti a non farsi confondere dai dati statistici, perché quando si legge qual è la frazione di reddito nazionale spesa per la ricerca, bisognerebbe veder bene che cosa si mette dietro questa parola “ricerca”: molto spesso ci si mettono attività semplicemente strumentali a prodotti per i quali una certa impresa è già qualificata, ma non riguardano assolutamente ricerca di cose nuove né utilizzazione di nuovi risultati, di nuove scoperte per trasformarle in qualcosa di utile economicamente e socialmente.

 

Qui si aprirebbe un discorso più complesso nel quale non mi addentro, visto che non sono un economista; credo però che non soltanto io, ma tutti noi abbiamo la sensazione che in Italia l’industria non funzioni come motore della ricerca:  non sia un settore della società che sente l’importanza della ricerca scientifica per la vita economica; e questo ci differenzia non soltanto dalla potentissima America, ma anche da paesi con i quali dobbiamo competere molto più da vicino, come la Francia, l’Inghilterra e ormai direi anche la Spagna.

 

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Ci sono poi le cosiddette “cause culturali”.

 

Sapete tutti che quando si parla del perché la scienza in Italia ha poco peso, perché il posto dell’insegnamento scientifico nella scuola è debole, subito si dà la colpa a Croce e Gentile. Ciò è vero, naturalmente, però vorrei aggiungere due emendamenti. Il primo è che non considererei quei pensatori una causa, bensì un effetto. Intendo dire che se storicamente nell’ambito del pensiero filosofico italiano sono prevalse posizioni svalutative nei confronti della scienza, ciò è accaduto perché nella struttura sociale italiana, la scienza aveva pochissimo peso. L’Italia non ha avuto una rivoluzione industriale; all’epoca in cui prima Croce e poi Gentile, hanno cominciato a lavorare, a scrivere, l’Italia non era un paese industrialmente significativo; era un paese prevalentemente agrario, dominato da classi sociali che avevano un modo di vedere, un modo di porsi in rapporto con il mondo che non aveva niente a che fare con quello dei paesi industriali. E’ per questo prima di tutto che il pensiero filosofico italiano si è caratterizzato in quel modo.

 

Secondo emendamento: ormai Croce e Gentile sono morti da parecchio tempo, ormai l’impronta filosofica dominante in Italia non è più la loro. Sono sorte altre correnti di pensiero, e non sto a fare tutto l’elenco, sia per risparmiare tempo, sia anche perché uscirei dall’ambito di mia competenza; ma leggendo e riflettendo mi sono formato l’opinione che ormai non si tratta più solo di eredità crociana e gentiliana. Resta però il fatto che tutto il pensiero filosofico dominante in Italia ha seguito correnti che nel loro modo d’interpretare il mondo riservano alla scienza un ruolo scarso, o nullo, o addirittura negativo.

 

Una cosa che purtroppo io nella mia ignoranza di cose filosofiche ho capito da poco, e forse per questo mi sembra importante, è che attualmente, intendo negli ultimi decenni, l’esponente filosofico più importante non è Croce né Gentile ma è Heidegger. Se vi confrontate con i vostri colleghi che hanno una formazione umanistica e che ragionano del nostro tema dal loro punto di vista, vedrete che il loro riferimento più comune è appunto Heidegger. Confesso che per questo motivo ho anche cercato di capire Heidegger: non ho mai osato leggerlo, salvo qualche pagina, ma ho tentato di seguire recensioni, articoli di soggetto filosofico, ecc.: non mi riesce quasi di capirci una parola. I filosofi mi dicono che questo accade perché non padroneggio il loro linguaggio, come loro non intendono il mio quando parlo di fisica: che ogni disciplina ha i suoi termini specialistici, i suoi riferimenti di base, un certo modo di esprimersi ecc.; sta di fatto che ho trovato grande difficoltà per estrarne un po’ di succo.

 

E  da quel poco che ne ho estratto, mi sono reso conto che nel pensiero filosofico di H. la scienza non si può nemmeno dire che non conta: è assolutamente in secondo piano, nel senso che ciò di cui si parla nel pensiero heideggeriano è qualcosa che si chiama “tecnica”, ma che non bisogna assolutamente confondere con quella che tutti noi intendiamo, cioè l’applicazione delle conoscenze ai fini di produrre e fabbricare qualcosa. No la tecnica di H. io non vi so spiegare bene cos’è, ma l’ho intesa come una forza che si contrappone ad altre forze del pensiero e che ha, sostanzialmente, nella sua visione un ruolo negativo. E la scienza? dove sta la scienza? La scienza è uno strumento di cui la tecnica si serve per realizzare i propri fini; quindi la valutazione negativa della scienza è implicita, per il semplice fatto che la scienza aiuta qualcosa che va contro i fini dell’essere.

 

Questo è quindi un elemento che bisogna tenere presente per due motivi: primo perché se parlate di tecnica con professori di filosofia o di lettere, finirete per accorgervi di star la stessa parola per intendere cose diverse; secondo perché c’è questa valutazione negativa di base con la quale ci si deve scontrare. Ecco che cosa intendevo parlando di cause culturali.

 

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E ora due parole sulle cause sociali.

 

Qual è il ruolo degli scienziati nella società? Come ho già detto, gli scienziati non sono una parte importante, non hanno un peso rilevante nella nostra società. Sono rispettati, anche se più a parole che nella sostanza, però in realtà non gli si dà nessun ascolto, nessuna considerazione. Di riflesso gli scienziati tendono generalmente a rinchiudersi, a costituirsi in casta propria, e a mettersi in rapporto con i poteri semplicemente allo scopo di ottenere “i soldi”: i mezzi che servono per mandare avanti la ricerca.

 

Per darvi un’idea di qual è la considerazione degli scienziati, voglio citarvi un esempio. Quando mi si propone di tenere un discorso, un intervento, di qualsiasi genere, allora io comincio a tenere l’orecchio attento alla televisione, a seguire i giornali, in cerca d’idee. Capita sempre qualche battuta, qualche frase in un’intervista, qualcosa che può essere utile allo scopo... In questi giorni mi è capitata la discussione sulle medicine alternative: avrete visto tutti la deliberazione dell’Ordine dei medici in favore di un controllo medico sulle medicine alternative, e il successivo intervento di protesta da parte di un gruppo di scienziati, tra i quali due premi Nobel. Nel corso della discussione che ne è seguita, mi è capitato di leggere la seguente frase in un’intervista (dirò poi di chi):

 

“Rispetto il parere dei premi Nobel (e già il termine “rispetto” mi disturba, perché è chiaramente un’ipocrisia) ma francamente ritengo che sia più importante rispondere alle richieste di dieci milioni di italiani e soprattutto dotare il nostro paese di una legge in armonia con le normative europee. Gli scienziati esprimono il loro punto di vista ma non sono mica la Cassazione. Noi andiamo avanti. Non ritengo i test negativi dell’Istituto Superiore di Sanità (stiamo parlando dell’omeopatia) un vincolo: ci sono studi che portano a risultati esattamente opposti.”

 

L’intervistato si chiama Cesare Cursi ed è sottosegretario alla Sanità. Questo signore mi è assolutamente sconosciuto, non so che qualifiche abbia; ma ha una responsabilità di governo; e questa è la considerazione che ha di quegli scienziati che ha detto di rispettare. “Noi andiamo avanti lo stesso”: dopo tutto ci sono dieci milioni di italiani che vogliono l’omeopatia e noi dobbiamo dare retta a quelli. È giusto, perché quelli poi votano, e ciò interessa molto di più.

 

Questo era solo un piccolo esempio per dirvi qual è il grado di considerazione aperta, esplicita, che la classe politica ha degli uomini di scienza. Se posso permettermi una valutazione un po’ politica, direi che ciò che caratterizza la nuova maggioranza da questo punto di vista è solo una maggiore improntitudine. Non hanno nessuna vergogna, ma secondo me non sono i soli a pensarlo, secondo me la classe politica nel suo insieme non fa nessuna differenza da questo punto di vista; però questi neanche si vergognano. Conoscerete quel famoso detto “l’ipocrisia è l’omaggio che il vizio rende alla virtù”: se a uno non va di dire quello che pensa significa che sa che quello che pensa non è bello; invece c’‘è chi lo dice senza nessuna remora. Come naturale conseguenza, gli scienziati si rinchiudono e tendono a fare gli affari propri: cercano di sopravvivere, di strappare i finanziamenti ecc.

 

Questa situazione spiega secondo me una certa inerzia delle società scientifiche. Scusate, non dovrei generalizzare, perché io ne conosco bene soltanto una (la SIF); ma non ho particolari motivi per aspettarmi che le altre siano molto diverse. Che intendo parlando d’inerzia? In realtà anche le società scientifiche ogni tanto tirano fuori un appello o altro; ma bisogna proprio che suoni un campanello di allarme violento perché ci si muova... Nell’intervento che mi ha preceduto sono stati citati i dati relativi al calo delle iscrizioni universitarie: io posso portarvi qualche dato sulle iscrizioni a Fisica. La situazione di Pisa è tra le più rosee: in 10 anni siamo passati da 170 immatricolazioni (che è stata la punta massima verificatasi nel 1992) a circa metà; poi c’è stata una lieve risalita in questi ultimi due anni e ora siamo intorno al centinaio. Ma se andate a guardare la situazione di altri corsi di laurea in Fisica in Italia, vedete che ci sono di quelli che si sono visti gli studenti ridotti a un quarto o anche meno; ci sono università importanti che si trovano ad avere venti immatricolati.

 

A questo punto è chiaro che i miei colleghi si sono messi paura e allora è venuto fuori il manifesto; e si capisce bene cosa voglio dire con “paura”, perché perdere l’utenza vuol dire perdere soldi, perdere posti, perdere in concreto le condizioni in cui si può lavorare. Ma finché non è successo questo, una seria azione di contrasto verso le condizioni in cui veniva tenuta la ricerca fisica in Italia non è stata fatta.

 

Mi potreste dire che noi fisici non ci dobbiamo lamentare troppo, visto che abbiamo finanziamenti speciali, come quelli per l’INFN, che sono sempre stati abbastanza sostanziosi... E’ vero, e io mi domando perfino come mai: sono finanziamenti grazie ai quali l’Italia si è tenuta al livello di altri paesi in maniera, direi, sproporzionata (lo dico qui e per carità che non esca fuori!). Infatti a differenza di altri paesi in Italia non c’è il retroterra produttivo industriale che giustifichi un impegno di questo genere. Si può anche vedere la cosa da un altro lato: in altri paesi, come qui, la ricerca costa, ma questa spesa diventa un indotto per il resto del paese, perché c’è produzione di strumenti scientifici, ci sono pubblicazioni, viene stimolata la stampa di libri; tutte spese che alla fine si redistribuiscono nella società. Se invece andate a guardare la contabilità di un ente scientifico italiano scoprirete (e questo vale non solo per la fisica ma per tutta la ricerca in generale) che le spese finiscono in gran parte all’estero. In Italia infatti non esiste praticamente produzione di strumenti scientifici, non esistono riviste scientifiche di prestigio internazionale, la gran maggioranza dei libri non solo sono scritti in inglese ma sono stampati da editori tedeschi, olandesi, inglesi o quello che sia, ma non italiani; quindi il risultato è che le spese per la ricerca scientifica in Italia sono un passivo netto. Si potrebbe mettere all’attivo almeno una voce: l’addestramento dei giovani, indispensabile per mantenere la vitalità dell’ambiente scientifico. Purtroppo però sappiamo tutti che non di rado questi giovani, se vogliono proseguire il loro lavoro, debbono emigrare, e quindi abbiamo un altro passivo: spendiamo denari ed energie per dare linfa vitale alle ricerche in altri paesi.

 

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Guardando più da vicino all’ambito scolastico, vorrei segnalare un aspetto che mi ha sempre colpito, e cioè la debolezza degli insegnanti di materie scientifiche nei confronti dei loro colleghi nel sostenere le ragioni culturali delle proprie materie. Ci sono innumerevoli occasioni in cui ciò può accadere, per es. nelle discussioni in un consiglio di classe o in collegio dei docenti. A quanto ho sentito dire, non di rado gli insegnanti di scienze o di fisica o di matematica vengono messi a mal partito dai colleghi di materie umanistiche, che sono molto più aggressivi, più energici, nel difendere le loro ragioni. Si dirà che sono anche numericamente prevalenti: è vero ma secondo me non è tutto. Secondo me alla radice della difficoltà c’è una questione culturale che deriva anche dalla preparazione ricevuta, fin dal tempo degli studi universitari. Bisogna riconoscere che noi docenti universitari non abituiamo i nostri studenti - che poi diventeranno insegnanti - a difendere le loro idee in quanto idee, con il contenuto e per il valore che hanno: troppo spesso ci limitiamo a una formazione tecnica e non sappiamo andare oltre.

 

Capisco che sarebbe molto difficile fare diversamente: sarei io il primo a non volere un’università fatta di chiacchiere, di bei discorsi; un posto dove si parla di tante belle cose ma non s’impara la sostanza di una disciplina scientifica. Però ricordo di aver chiesto molte volte (parlo soprattutto degli insegnanti di fisica, che conosco molto meglio) perché non si dessero da fare, perché non sostenessero meglio le proprie idee: di solito mi si risponde che gli altri hanno la parola facile, sanno citare questo e quello... Quindi la debolezza di cui parlo è sì quantitativa (poche ore, pochi insegnanti ecc.); ma poi diventa anche qualitativa, nel senso che uno non riesce nemmeno a difendere le buone ragioni che ha.

 

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Torno ora brevemente alla questione del titolo. Mi si potrebbe obiettare: non è vero, la scienza è popolare: i programmi “scientifici” in TV sono fra i più seguiti, ecc. Risposta: sì, ma si sta parlando di una falsa scienza: di scienza come apparenza. Una “scienza” in cui contano i risultati, tanto meglio quanto più “eclatanti” e incomprensibili. In cui conta l'annuncio, prima ancora di una certezza del risultato annunciato (e qui bisognerebbe parlare della responsabilità di non pochi scienziati, che ormai hanno imparato a farsi pubblicità sfruttando di media). Non conta lo sforzo, i tentativi, la ricerca, i faticosi passi avanti... Non conta far capire, magari poco, ma lasciando qualche impronta che resti.

 

C’è poi un problema oggettivo: la sostanziale incomprensibilità della scienza moderna. Non solo per il linguaggio necessariamente specialistico e spesso astruso, ma per gli stessi oggetti della ricerca: invisibili, inafferrabili o addirittura inconcepibili. La divulgazione cerca di supplire con metafore e analogie, ma con ciò finisce, anche nei casi migliori, per tradire il suo oggetto, nella vana ricerca di tradurre ciò che spesso è intraducibile.

 

Mi rendo conto che questi brevi cenni avrebbero bisogno di ben altro approfondimento, ma non è questo il luogo, mentre mi pareva necessario non passare sotto silenzio la questione.

 

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Vediamo di concludere: come ho detto all’inizio, se la situazione è questa, che cosa possiamo ricavare da un appello? L’appello può servire solo se smuove qualcuno, e se questo qualcuno viene indotto a riflettere e si convince che deve fare qualcosa. E’ tutto diverso se invece l’indirizzo politico, come quello dell’attuale maggioranza di governo (ma non solo, come ho fatto notare), è funzionale a un modo di pensare e anche a una struttura sociale esistente. Terreni ci ha ricordato che stiamo andando verso una sistema scolastico prevalentemente di tipo tecnico, dove s’insegna alla gente a fare le cose, non a capire quello che c’è dietro; perché le strutture produttive non hanno bisogno di gente che capisca, che inventi, che progetti, ma di gente che piuttosto acquisisca un brevetto all’estero, lo metta in pratica, fabbrichi il prodotto, lo venda. Allora, se questa è la situazione, se questo tipo di maggioranza rispecchia forse meglio delle precedenti la reale situazione, fare appelli significa poco.

 

In queste condizioni che cosa si può fare? Secondo me la sola possibilità è quella che era implicita nel discorso sulla debolezza degli insegnanti. Bisogna resistere a questa tendenza: tutte le volte che capita l’occasione, e ne capitano tutti i momenti, occorre reagire. So che non è facile, e io per primo non ho titolo per fare lezioni: per esempio, quando ho letto quell’intervista sull’omeopatia che vi ho citato prima, il mio primo impulso è stato quello di scrivere una lettera al giornale; poi non ne ho fatto niente. Si pensa che non serve a niente, che non vale la pena ... eppure se ognuno di noi si facesse sentire: nel suo luogo di lavoro, nelle occasioni concrete che gli si presentano, negli ambiti pubblici quali convegni, riviste, giornali ... riusciremmo almeno a tener viva la discussione, a non lasciare che le cose vadano come vanno, per pura rassegnazione. Ma il punto più importante, intrinseco nel nostro mestiere, è un altro: lavorare coi giovani.

 

Mi rendo conto che lavorare coi giovani diventa sempre più difficile se ci tolgono le ore e se l’insegnamento scientifico perde di prestigio: Terreni ricordava il caso assurdo, davvero incredibile, di chi ha una sola ora di lezione settimanale: che se ne fa? È peggio di una presa in giro, è un insulto, e anch’io che non insegno nella scuola secondaria immagino cosa può contare un insegnante che ha un’ora: i ragazzi non apprenderanno niente, anzi non studieranno neppure quella materia, perché tanto il giudizio finale non dipenderà mai da quel professore... Però per fortuna ci sono anche situazioni diverse, in cui il docente ha uno spazio, non dico soddisfacente, ma almeno tollerabile.

 

Da questo punto di vista è anche importante un’altra considerazione. In termini generali, tutti noi ci  dedichiamo all’educazione scientifica; ma poi ognuno ha la sua specializzazione: io sono fisico, la maggior parte di voi probabilmente siete biologi, o naturalisti o chimici ecc. E sappiamo tutti fin troppo bene quanto sia facile cominciare a beccarsi, su questioni non grandi ma che in sé hanno pure una giustificazione, un fondamento. Però voi capite che la situazione di cui stiamo parlando è molto peggio dell’avere un’ora di più o un’ora di meno per la propria materia, che la biologia la insegni un matematico o che la matematica la insegni un laureato in biologia (personalmente non sono d’accordo  che sia meglio far insegnare la matematica a un laureato in biologia piuttosto del viceversa, ma queste sono opinioni). Il vero problema lo abbiamo davanti: cerchiamo di vedere quello che può metterci d’accordo. Certo, nella vita quotidiana della scuola le occasioni di discussione e di contrasto ci sono, però mi sembra assai più importante tener sempre presente quello che rende la vita difficile a tutti quanti. Insomma, non fare come i proverbiali polli di Renzo...